Claudio Gnoli

Nei Bassi Tatra dopo trent'anni

Memoria personale al tempo di Google


Mi sono tornati spesso alla mente dei vaghi ricordi di un romanzo per ragazzi, che avevo letto probabilmente al tempo della scuola media.

Gli insegnanti ci incoraggiavano a utilizzare una piccola raccolta di narrativa, una biblioteca di classe, che doveva essere collocata in un armadio a muro sulla parete dietro la cattedra. Essendo portato alla lettura, anch'io pur senza particolari entusiasmi presi in prestito e completai alcuni titoli, scelti in base all'ispirazione personale fra quelli disponibili. Alcuni appartenevano a una serie tradotta dal francese incentrata sulle avventure di un ragazzo insieme a un pony, il cui nome Poly era presente in tutti i titoli. Nel mio ricordo tornavano due ragazzi, ai quali mi ero affezionato, scorrazzanti per i monti dalle parti di Bratislava.

In un momento di riflessione retrospettiva ho pensato che potevo provare a rintracciarli, per ricordarmi che cosa amavo di loro a sufficienza per averli ancora in mente a distanza di così tanto tempo. La facile disponibilità di Internet e la familiarità con le tecniche di information retrieval mi dava ora qualche speranza di successo, che all'epoca della mia adolescenza sarebbe invece stata quasi nulla, con così pochi elementi a disposizione.

In effetti qualche tentativo metodico con Google e i cataloghi di biblioteche mi ha presto portato a identificare la serie dei racconti di Poly, opera di Cécile Aubry. Con un po' di pazienza in più, ecco trovati anche dei brevi cenni in francese ai singoli episodi, nei quali Poly e il ragazzo si avventurano in varie parti della Francia e dell'Europa. Ma dei dintorni di Bratislava, nessuna traccia, neanche ripassandoli tutti uno per uno. Eppure questo dettaglio del ricordo era preciso. Forse, allora, non si trattava della serie di Poly, ma di un altro testo che si trovava nello stesso ripiano di quell'armadio a muro. E a quel punto, senza aver mai più ripensato all'autore né al titolo preciso, il mistero permaneva.

Bisogna sapere che la ragazza dei monti si chiamava per forza Liva, perché in séguito questo nome, anche per il suono che riunisce diversi dei miei fonemi preferiti, l'avevo mutuato per ribattezzare il mio progetto sperimentale di lingua artificiale, al quale ho lavorato per diversi anni (per poi riconvertire la mia passione per i linguaggi pianificati in direzione delle classificazioni bibliografiche). Questo lo ricordavo, anche perché per un breve periodo avevo importato i personaggi dei due ragazzi, che mi pareva fossero appunto Julo e Liva, nel mondo di fantasia sviluppato attorno alla mia collezione di automobiline. Tuttavia, una ricerca in Google della coppia di parole julo liva non dava risultati pertinenti a quello che avevo in mente.

Recentemente, aprendo un armadio per risistemare qualcosa, ho ripreso in mano una sorta di quadernone riassuntivo di quel mondo di gare di macchinine e tappi di bottiglia, che avevo compilato secondo la mia nota tendenza alla documentazione. Erano citati brevemente anche loro, in effetti, con il piccolo particolare che lui si chiamava Juro e non Julo. Ho allora ripetuto la ricerca in Google corretta, e questo si è rivelato l'elemento determinante.

In un angolino dello sterminato docuverso digitale ci sono infatti anche loro. Non sono certo famosi: solo un paio di schede fra le milioni di altre non pertinenti. Fortunosamente, una scuola di Cremona ha compilato, in una primitiva pagina web fatta solo di una tabella, delle brevi note sul contenuto di vari libri consigliati per i ragazzi, così come ai miei tempi. Si tratta però di un titolo ormai passato di moda, edito in italiano da Salani nel 1975 da un'edizione cecoslovacca Mladé Letá del 1967, della stimata scrittrice per ragazzi Klára Jarunková, morta anziana pochi anni fa (come informa soltanto l'edizione in slovacco di Wikipedia, decifrabile con il traduttore automatico di Google). Sì, era senz'altro quello. Il vento sull'erba nuova: un titolo che ovviamente sarebbe stato ben difficile da conservare in mente.

Ora che avevo il titolo, il bello è stato che risultava disponibile tramite Amazon, in un paio di copie offerte da una piccola libreria. 7 euro valevano dopotutto un ricordo d'adolescenza così persistente, e l'ho ordinato unitamente a un altro libro e due DVD forniti direttamente da Amazon. Nella portineria all'università sono arrivati in due pacchetti separati: per prima Liva, e il giorno dopo con un altro corriere il resto. Lode alla libreria Piani di Badia Monte San Pietro (BO) che, probabilmente durante qualche ora senza clienti, si era presa la briga di inserire in Amazon una lista di vecchi titoli avanzati.

In realtà Liva non è protagonista del romanzo, che è narrato invece in prima persona da Juro. Egli sembra avere circa 13 anni e impersona il punto di vista di un adolescente, che l'introduzione riconosce tratteggiato con sensibilità e di buon valore formativo per i lettori. Un secondo protagonista è il fratello maggiore di Juro, soprannominato Lupo: in slovacco Vlk — sì: con l'accento sulla elle, che da quelle parti può essere vocalizzata — citato nel titolo originale Brat mlčanlivého Vlka, "Lupo fratello silenzioso". Fanno parte di una piacevole famiglia che vive gestendo un rifugio montano, di cui i fratelli stessi occupano la stanza 15, che evidentemente ha cambiato uso dopo la loro nascita. Siamo nei Bassi Tatra, una catena che apprendo da Internet trovarsi effettivamente nel mezzo della Slovacchia, caratterizzata da cime di moderata altezza un po' come il nostro Appennino, ma con un clima più settentrionale. Ecco un ambiente di libertà fra boschi, trote e cani sanbernardo e di rapporti umani radi ma intensi, che evidentemente mi aveva attirato e fatto sentire a casa già allora, sebbene vivessi in una grande città grigia e non fossi ancora stato introdotto dagli zii all'Appennino. Ce l'ho proprio nel sangue, il bisogno di questi spazi. E la vita dei rifugi mi è sempre piaciuta, più ancora delle escursioni stesse che si fanno per raggiungerli. Però non mi ricordavo più di averne letto una trentina di anni fa.

Gustosa è per esempio l'iniziazione di Juro al mondo dei cacciatori, il giorno che questi si sono permessi di uccidere il vecchio cervo Sedicianni, con la compiacenza del papà cui l'animale procurava grattacapi, ostruendo regolarmente il fosso del generatore di corrente elettrica. Juro avrebbe preferito che fosse stato risparmiato, quale splendida ancestrale manifestazione del suo territorio; ma, inviato da suo padre ad aiutare presso il capanno in mezzo alla foresta, non si sottrae al banchetto degli uccisori, nel quale gli è concesso bere del vino insieme agli altri: come in genere non si sottrae alle contraddizioni che scopre anche nella vita delle sue montagne.

Il saccone e il cuscino di tela verde erano riempiti di fieno e tutto il letto aveva un meraviglioso odore di fine scuola, un po' prima dell'inizio delle vacanze, quando si aspetta l'autobus con la pagella in mano, ma non alla fermata, bensì sdraiati su un bel mucchio di fieno, ai lati della strada.
I cacciatori russavano. Io mi sporsi dalla cuccetta: il cuoco sotto di me era l'unico che tacesse. Tutti gli altri ronfavano talmente forte che non potei trattenermi dal ridere.
Allora, piano piano, scesi dalla branda e aprii la porta. [...] La brace era spenta e il cervo morto giaceva solo, abbandonato in mezzo alla radura.

La situazione mi ha ricordato le mie sensazioni in mezzo agli amici escursionisti dei miei zii, che con le loro stramberie individuali formavano una compagnia in cui mi avevano ammesso, determinata a passare bene insieme qualche giornata. Con loro o coi genitori, negli anni in cui lessi questo romanzo, facevo in valle Po e in val d'Aosta le prime visite ad ambienti montani, e cominciavo a familiarizzare con cose come pensioni familiari dalle pareti rivestite in legno, fredde acque correnti, segnavia o bicchierini di genepì. Con loro camminavo, scherzavo, mi sentivo protetto e al tempo stesso sviluppavo in silenzio le mie osservazioni indipendenti.

Liva, della quale pure mi ricordavo pochissimo, all'inizio non c'è. Comincia ad essere nominata, in mezzo agli altri, solo a pagina 50 allorché uno zio dice a Juro:

— La strada da queste parti è lunga e solitaria. Non c'è nemmeno la possibilità di farsi una birra. Perciò prenderemo la strada del rifugio Posleca.
Per me andava benone. Lì abita Liva. Poi però mi misi a riflettere sul perché lo zio volesse fare un giro tanto lungo. E mi ricordai che una volta eravamo stati invitati ad un battesimo dagli Smira nel rifugio Posleca e che allora zio Jaro si era lanciato nelle danze insieme alla zia Smira.

Su Internet non c'è traccia di luoghi chiamati Posleca. Cionostante da altri toponimi (talvolta dalla grafia deformata, forse dalla traduttrice, attraverso il tedesco o per renderla meno ostica a lettori italiani) si capisce che ci si trova sul versante sud della cima più alta dei Bassi Tatra, il Ďumbier ("lo Jumber", citato spesso), che emerge con qualche picco roccioso tra vaste distese di foreste e prati d'altura. Ai suoi piedi si trova sulle carte il rifugio M. R. Štefánika, eretto nel 1924, che potrebbe trovarsi dalle parti del "Posleca" e che un sentiero collega direttamente, verso ovest, alla Trangoška: questa località deve corrispondere al rifugio della famiglia di Juro, che di cognome fa proprio "Trangosch". Nelle vicinanze si trova oggi anche un albergo montano con impianti di risalita, che probabilmente negli anni Sessanta non esistevano ancora; comunque l'ambiente documentato oggi dalle foto e dai video che si trovano in Rete corrisponde bene al mondo descritto da Juro. L'escursione più frequente che egli fa con suo fratello e i cani consiste nel "salire sul Sedlo", un nome che significa genericamente "sella" e dev'essere uno dei valichi sul crinale sopra il rifugio, nei pressi dei monti Chopok e Konské ("il Kozi"?). A sud e a nord della catena si scende invece verso i fondivalle, in cui si trovano le cittadine di riferimento per la zona: Brezno ("Brezna", dove Liva si ferma nel periodo scolastico perché il suo rifugio non è collegato da mezzi pubblici), Ružomberok ("Rumberok", dove abita la morosa di Lupo), Liptovský Mikuláš ("Mikulash", dove zio e nipote stanno appunto andando a recuperare uno dei cani).

I due arrivano dunque al rifugio gestito da un'altra famiglia e con loro pranzano. Concedetemi una certa emozione nell'arrivare finalmente a pagina 53:

Cercai Liva. Dal momento del nostro arrivo non si era ancora fatta vedere e non era apparsa nemmeno al pranzo. Ero certo che ci avesse visti arrivare e che proprio per questo si fosse nascosta. È sempre tanto strana: non vuole neppure aiutare nelle faccende di casa e qualche volta sparisce per tutta la giornata. Beh, certo, è ancora tanto più piccola di me.
Salii sul tetto e mi appoggiai al camino. Tutto di pietra, alto quanto me e per nulla caldo. Ma mi difendeva dal vento, almeno.
Da lassù si gode una vista magnifica. In lontananza potevo vedere, appena accennata, una città. E poi vidi Liva.
Corsi da lei: sapevo che sotto la roccia c'era una piccola caverna e che Liva si era costruita lì la sua casetta.
— Vuoi mangiare? — mi domandò.
Liva ha gli occhi verdi, ma son quasi nascosti dalle ciglia nere. I suoi capelli invece non sono neri, ma screziati e schiariti dal sole.

Nel corso della narrazione ai due ragazzi non succede poi molto, a differenza di qualche altro personaggio; ma il valore della lettura sta nella delicatezza realistica con cui sono resi i sentimenti di Juro, man mano che scorre la sua vita in questo ambiente solitario e suggestivo, intenerito solo dall'osservazione della sorellina trainata sulla slitta dai cani più grossi di lei oppure dalla speranza di incrociare nuovamente Liva, il "piccolo capriolo". Un'esistenza che altri, come la mamma, possono trovare disagiata, confinata fra pochi parenti e i frequentatori del rifugio, e che obbliga per andare a scuola nel paese di fondovalle (Bystrá?) a prendere ogni alba una corriera, che d'inverno si fa largo fra due pareti di neve. Ma dal comportamento e dai propositi del protagonista si comprende come egli sia profondamente affezionato a questo suo particolare mondo, e non rimpianga affatto la vita comoda della gente di città. Il ragazzo di Bratislava di cui ogni agosto ritrova la compagnia è un amico ma al tempo stesso qualcuno da commiserare, nel suo ingenuo "amore per la natura" che la madre gli ha insegnato a manifestare con improbabili esclamazioni. I nostri, invece, a stare in città non tengono affatto:

— Mio padre dice che sono cresciuta abbastanza e che posso tornare a casa anche per qualche fine settimana.
La notizia mi rese felice.
— Altrimenti, torneresti soltanto per Natale?
— Se ho fortuna, posso ammalarmi. Allora tornerei prima, ed anche per un bel po' di tempo.
Ma io dubitavo che Liva potesse ammalarsi.
— L'anno scorso com'è andata? — domandai.
— L'anno scorso ho avuto una fortuna fantastica: avvelenamento da cibi guasti — una salsiccia — e tre settimane a casa.
Ero piuttosto colpito, ma Liva rideva.

La resa di valori e passioni sincere si accompagna a una narrativa rigorosa, nella quale ai momenti comici ne seguono altri drammatici che l'autrice non edulcora, ma semplicemente trasmette sempre dal punto di vista del ragazzo che sta crescendo e acquisisce esperienza. D'altronde è così che è la montagna, e più in generale la vita. È forse questa nitidezza a penetrare in profondità nel corso della lettura: tutto sommato non era un libro qualsiasi quello che mi era rimasto dentro fra tanti, e che rimane una lettura piacevole anche da adulti.

Credo che in una futura occasione cercherò di passare dalla Slovacchia centrale, ormai ben assestata nei miei ricordi personali.

 


Questa lettura fa parte di un periodo di nuova attrazione per la narrativa ambientata in montagna, che ha compreso anche:

  • Carlo Sgorlon, Gli dèi torneranno (Alpi friulane)
  • Mario Rigoni Stern, Il bosco degli urogalli (altopiano di Asiago)
  • Francesco Biamonti, Vento largo (Alpi Marittime)
  • Armanda Navone Paganelli, Maitö' (Appennino delle Quattro Province)
  • Francesco Guccini - Loriano Macchiavelli, Malastagione (Appennino tosco-emiliano)

 

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