Claudio Gnoli

Una mucca per l'ospite bianco


Il viaggio probabilmente più lungo della mia vita comincia in un ambulatorio di una deserta sede della sanità pubblica. Alla scrivania, un bonario dottore barbuto raccoglie da me e Jacky i termini e gli scopi della nostra trasferta tropicale, e sulla loro base emana indicazioni pratiche. Procede in modo del tutto indolore a vaccinarci sul braccio contro febbre gialla ed epatite. Per la malaria, si dilunga nello stilare una tabella di assunzione delle pastiglie di Lariam con cadenza settimanale, raccomandandoci di seguirla precisamente. Aggiunge altre raccomandazioni sull'uso di zanzariere e l'irrorazione di vestiti e valigie con uno fra una gamma di prodotti venduti in farmacia o su Internet ma non facilissimi da trovare; ci spiega peraltro che l'Autan normale e quello in versione "tropicale" hanno esattamente lo stesso principio attivo ed è quindi indifferente usare l'uno o l'altro. Di tutto ciò Jacky ha già una certa esperienza, e soprattutto ne ha sua mamma che ci accompagnerà: comunque ascoltiamo, cercando di ricordarci tutto anche noi. Con gli appunti fotocopiati per i viaggiatori tropicali e un nuovo libretto giallo delle vaccinazioni, torniamo alla macchina e la riaccompagno a scuola.

Un po' meno amichevole risulta l'ambiente della questura, alla quale ho inoltrato diversi mesi fa la richiesta di un "passaporto elettronico", che di elettronico in effetti ha soltanto l'inizio della procedura: dal sito infatti mi è stato concesso un appuntamento in una fascia di un'ora, presso una sede il cui ingresso si rivela piuttosto caotico. Occorre per prima cosa scoprire che un anonimo foglio appeso in un angolo intima di presentarsi all'appuntamento già muniti dell'onerosa marca da bollo, il che mi suggerisce di uscire subito a cercare una tabaccheria prima di perdere tempo in un'attesa vana. Ritornato con tutti i requisiti in mio possesso, vengo indirizzato a uno sportello il cui pesante vetro antiproiettile mi impedisce quasi completamente di sentire quello che l'impiegata mi sta chiedendo; appongo i miei indici su un lettore digitale di impronte e metto un paio di firme, per tornare due settimane più tardi a ritirare il documento, in un'ancora tradizionalissima forma cartacea.

A questo punto ho le carte in regola per poter richiedere un visto turistico. Stavolta la procedura è semplicissima: basta telefonare al consolato più vicino e concordare un appuntamento con una gentile signora che parla sia francese che italiano. Lo fisso a mezzogiorno di un venerdì, dimodoché abbiamo il tempo di partire in auto la mattina presto, cavarcela nel traffico della barriera della Firenze-Mare e nelle temibili svolte obbligate dell'Ovonda, cercare invano una zona ragionevolmente centrale dove aver diritto a parcheggiare e finire per gettarsi in un garage a pagamento trovato casualmente. A piedi raggiungiamo la piazza, ne facciamo un mezzo giro fino a identificare il palazzo corrispondente al giusto numero civico, saliamo al primo piano e ci troviamo in un signorile corridoio sul quale si affacciano alcuni uffici degli enti più diversi. Quelli del consolato in effetti consistono solo in due porte: una, chiusa, dell'ufficio del console e l'altra, aperta, di una stretta segreteria al cui tavolo siede evidentemente la stessa signora del telefono, che mi fa compilare in piedi un modulo cartaceo fotocopiato, impaginato in modo approssimativo secondo gli usi dell'epoca delle macchine per scrivere. Quindi ci indica con autorità di aspettare nel corridoio, dove possiamo usare un lussoso divano. Riappare una decina di minuti dopo dalla porta del console, dicendoci di entrare: nell'ufficio c'è soltanto lei. Mi chiede lo scopo del viaggio, ritira la consistente tassa in contanti e cambia tono, dicendomi cordialmente che Douala è una bella città.

Il giorno della partenza, avendo lasciato le auto in posti dove non occorre spostarle per il lavaggio settimanale della via, raggiungiamo con due treni l'aeroporto di Malpensa, da cui la mattina presto decolla il nostro aereo per Parigi. Dopo un'oretta di volo già inizia la discesa sull'aeroporto Charles De Gaulle. Un po' di ritardo e disorganizzazione e la folla numerosa ci obbligano a correre fra i varchi e gli ulteriori controlli, e arrivo col fiatone a bordo del più spazioso Airbus in partenza per Douala. Qui ci verrà servito anche un buon pranzo e viaggeremo senza grossi imprevisti, salvo qualche vuoto d'aria. Si sente il rumore dell'uscita del carrello, e poco dopo tocchiamo terra con un applauso dei passeggeri al pilota, come è d'uso. Dai finestrini dell'aereo che va rallentando vedo commosso i primi dettagli di Africa: l'erba di fianco alla pista, in lontananza la torre di controllo dove lavorava il papà meteorologo. Nell'aereoporto, pure uno dei più importanti dell'Africa centrale, i passaggi sono chiusi alla bell'e meglio con fogli di lamiera, ben diversi dalle rifiniture europee; lei mi fotografa di fianco alla scritta "La città di Douala vi dà il benvenuto".

Un bus-navetta conduce noi e qualche altro passeggero, attraverso svincoli anonimi, all'hotel, moderna e piacevole sistemazione nel centrale quartiere di Bonanjo. Sarà la nostra base per diversi giorni, fra una stanza con bagno non molto spaziosa in cui viene aggiunto un terzo letto per Jacky e l'ampio pianterreno dove si consumano ottime colazioni con succo di guaiava e brioche francesi, e all'occorrenza pranzi e cene. Una serata verrà animata da un allegro cantante locale accompagnato da un tastierista che esegue popolari canzoni in voga nella zona (diverse, anche linguisticamente, da quelle della capitale o di altre regioni). Per cena un compagno di liceo viene a prenderci con un suo amico tassista e ci porta in una via piena di rustiche trattorie; ai lati dell'auto ancora in movimento si appoggiano giovani di entrambi i sessi che cercano di convincerci ad andare nel loro locale, come una sorta di buttadentro. Dopo aver parcheggiato, esaminiamo un venditore di pesci e gli comandiamo di cuocerne alla brace alcuni, per poi andarci a sedere e ordinare birra e bibite qualche casa più in là, nella veranda di una trattoria. Ci vorrà parecchio tempo perché ci vengano infine portati i nostri saporiti piatti, da consumare come si usa qui con le mani senza posate, per poi sciacquarsi nell'acqua appositamente predisposta in una scodella.

Usiamo i primi giorni per portare avanti la raccolta di documentazione. Sulle trafficate strade un'auto su due è un taxi giallo, quasi sempre una berlina Toyota: con un cenno lo si ferma, attraverso il finestrino aperto si propone la destinazione e si concorda un prezzo, ma non necessariamente si arriva a mettersi d'accordo, specialmente se il conducente è già diretto in una direzione diversa per servire altri clienti; tanto basta aspettare un attimo perché passi un altro taxi libero. Può accadere che lungo il tragitto salgano anche ulteriori passeggeri diretti nella stessa direzione. Al momento di pagare non conviene scendere subito, perché il conducente potrebbe andarsene senza darci il resto, specialmente in presenza di un bianco presumibilmente benestante come me. Per scendere bisogna talvolta farsi aprire dall'esterno, ché le maniglie interne sono state rubate da qualche cliente.

La segreteria e l'ufficio del console si trovano, bizzarramente, all'interno di una sede della Pirelli che deve aver affittato loro gli spazi, assai più moderni e puliti degli edifici circostanti; fra campioni di pneumatici e di detergenti per auto, una segretaria gentile ci spiega i documenti che dobbiamo raccogliere in vari uffici pubblici. Cominciamo allora a raggiungerli con altre corse in taxi: attorno ci scorre una città caotica e un po' selvaggia, piena di gente a piedi, moto condotte senza necessità di patente, negozietti di cibo o schede telefoniche costruiti alla bell'e meglio sul bordo della strada, canali di scolo non protetti da alcuna ringhiera, mucchi di spazzatura e un odore diffuso che imparerò essere quello di focolari o stufe a legna, utilizzata dovunque. Mi vengono indicati luoghi rilevanti come scuole, istituzioni o aziende occidentali, le cui sedi mi appaiono però del tutto analoghe alle altre case, tuttalpiù illustrate da semplici insegne blu o rosse su fondo bianco: Ministero tale... Dipartimento talaltro...

Dobbiamo ora raggiungere la persona accreditata a tradurre in italiano l'atto di nascita. Sta in un quartiere periferico all'altezza di un crocicchio identificabile solo dal nome di una stazione di servizio: OiLibya Guinness. La traversa è sterrata e interrotta da lavori, per cui il taxi non può entrarci: ci addentriamo a piedi seguendo le indicazioni, e presto ci rendiamo conto che non si tratta d'altro che della casa della signora Marisa, una donna che si era trasferita a vivere qui col marito e tiene ora privatamente i suoi corsi di italiano: 19 anni fa lo faceva invece presso una scuola superiore, e fu lei a suggerire di fare domanda per una borsa di studio in Italia e a regalare un vocabolario. Prima di riprendere a fare lezione ci promette che redigerà la traduzione la sera e l'indomani potremo ritirarla, come in effetti avviene. Possiamo allora tornare alla Pirelli dove, dopo un po' di attesa, la console ci riceve e parla a lungo oltre i vetri.

Il fratello di Danielle ci procura il contatto di un autista, di nome Félicien, che viene appositamente fuori dall'albergo a presentarsi munito di una buona Toyota Land Cruiser. Anche se è un po' caro mi sembra affidabile, e ci accordiamo con lui. L'indomani mattina partiamo dall'albergo a bordo della macchina di Félicien, che la guida con calma uscendo dal centro di Douala attraverso il ponte sul grande fiume Wouri, che qui sfocia nel golfo di Guinea (un esploratore portoghese che nell'estuario osservò molti gamberi lo battezzò Rio dos Camarões, da cui derivò il nome del Camerun). Qui sul lungofiume c'erano dei prati dove si andava a rilassarsi, ma ora il governo ha venduto lo spazio che è stato trasformato in una grande grigia fabbrica. L'ampia strada attraversa quindi il sobborgo di Bonabéri, fiancheggiata per un lungo tratto dalle capanne in cui sono stati installati dei negozietti, oltre i quali si trovano case più moderne e alcune industrie.

La città fa spazio ad una campagna agricola dove si scorgono frutteti di papaia, di ananas, di plantain eccetera, alcuni tenuti da singole famiglie e altri da aziende con produzione più intensiva. Di tanto in tanto bisogna fermarsi a dei controlli di polizia o a dei pedaggi sbarrati con semplici assi di legno, in corrispondenza dei quali si affollano ragazzini che da oltre i finestrini ci offrono mais abbrustolito, frutta, bâtons di un legume, porcospini arrosto o perfino scimmie arrosto... Ci fermiamo in corrispondenza di un paese per fare pipì e anche noi compriamo qualcosa. Spesso incrociamo i pulmini (car) delle compagnie private che costituiscono l'alternativa economica e scomoda al noleggio di auto: gente e bagagli vi sono stipati, dal tubo di scappamento esce il fumo nero di motori non revisionati e talvolta il mezzo si deve fermare in panne al bordo della strada e i passeggeri restano in attesa di un sostituto inviato prima o poi dalla città; sul davanti campeggiano i nomi delle aziende, una delle quali ha l'inquietante nome di Destiny.

Paziente l'auto supera un passo montano e scende sulla importante città di Bafoussam, nella quale entriamo per acquistare in uno dei suoi diversi mercati dell'acqua minerale per noi (più sicura di quella dei pozzi locali) e qualche sacco di riso e di sale che porteremo come regalo beneaugurante (dall'Italia portiamo inoltre in omaggio dell'olio di oliva del Finalese e un salame di Fabbrica). Mentre lei si addentra fra i banchi io resto nell'auto a sorvegliare le borse e osservo la gente che si muove fitta per la strada. Le donne vestono spesso in kaba tradizionale, ma alcune ragazze hanno un look più moderno e ammiccante e l'ultima moda sembra essere tingersi le treccine in blu. Per telefono contattiamo uno dei figli dello zio che ci sta venendo incontro con un autista locale, cercando di capire in che punto possiamo incontrarci. Ci accordiamo infine per la stazione degli autobus della città di Foumban, qualche decina di chilometri oltre Bafoussam. Lungo la strada camminano senza fretta donne e bambini che portano per chilometri, in genere reggendoli tranquillamente sulla testa, grandi sacchi di prodotti da vendere al mercato di Bafoussam; talvolta si incrociano anche mandrie di magre vacche che verranno condotte a piedi fino a Douala per essere lì macellate.

Nel posto concordato arriva effettivamente un giovane autista con una comune Toyota Corolla argento degli anni Novanta; tenendo conto che col figlio dello zio saremo a bordo in cinque, come vi potranno trovare spazio le nostre numerose valigie? Il guidatore non sembra preoccupato: le esamina e comincia a disporle metodicamente nel bagagliaio. Alla fine questo rimane parzialmente aperto e trattenuto da corde, ma impareremo che è la norma: nella regione infatti gran parte delle auto sono Toyota Corolla e spesso caricate più della nostra. L'autista ora guida velocemente su strade che, oltre Magba dove i Turchi sono arrivati ad asfaltare, diventano soltanto sterrate. Mentre scende la sera e siamo ormai stanchi si prospettano ancora diverse ore di auto sballottati fra le buche... Dal finestrino posteriore posso solo osservare le case ai lati della pista, che si susseguono in ordine sparso: in questa regione sono tutte simili, edificate in blocchi brunastri di terra battuta, ad un solo piano, spesso con al centro della facciata una rientranza che forma una veranda. Sulla soglia e all'esterno la gente è tranquillamente seduta a contemplare la sera, e ovunque si sente un odore di legna bruciata. A un certo punto giungiamo nella piazza di una località più grande, Bankim (ovvero Kimi), al centro della quale sorge un monumento rotondo in cemento: l'autista si ferma brevemente a fare un salto al bar, parla in fretta con la gente che incrocia. Ripartiamo, superiamo un altro controllo a cui dobbiamo mostrare i nostri passaporti.

Dopo le 21, ormai nel buio, l'auto imbocca una stradina più piccola ed erbosa e si ferma in un ampio cortile. All'intorno si sono riuniti decine di familiari che ci salutano e ci fanno entrare, ancora frastornati dal viaggio, in una stanza spoglia con poltrone e un divano alla fioca luce di una singola lampadina elettrica: è il salotto dello zio in quella che è la casa principale del villaggio. Accomodati nei posti d'onore scambiamo qualche parola mentre sulla parete di fondo tutta la famiglia, compresi numerosi bambini, ci osserva in rispettoso silenzio — sono probabilmente il primo bianco che molti di loro abbiano incontrato.

Lo zio ci ha destinato una stanzetta della casa principale con ingresso indipendente che dà verso la corte, in cui si trovano solo un tavolino e un letto formato con un materasso di gommapiuma. Jacky dormirà con vari cugini che abitano con le loro mamme le due ali ai lati della corte, destinati a due delle tre mogli dello zio e ai loro discendenti. Si daranno il cambio anche per cucinarci pranzi e cene, che ci vengono portati ogni volta da qualcuno in piccole pentole, non sempre accompagnate da posate. Il cibo è in genere gustoso: pollo, manzo o pesci di lago insaporiti da sughi piccanti, riso in bianco, bastoncini di manioca o polenta di mais bianco che chiamano cuscus. Spesso e volentieri lo zio mi consegna una delle bottiglie da 66 cl di birra francese "33" che ha appositamente fatto comprare, o una bottiglietta di bibita gassata all'ananas, alla granatina o all'arancia. Per sua disposizione veniamo sempre trattati come ospiti di riguardo e possiamo permetterci di starcene inattivi seduti sulla veranda che dà sulla corte, osservando le donne e le ragazzine che a metà della mattina, di ritorno dai campi circostanti, stendono ad asciugare il mais, il cacao, le arachidi e gli altri prodotti; oltre che dalle persone, tutto il villaggio è continuamente percorso anche da galline, galli, oche, caprette e pecore dal mantello bianconero, maialini e cani; solo capre e pecore devono essere tenute lontane dai cereali, perché capaci di mangiarne parecchi in breve tempo, curando di chiudere i cancelletti di legno che delimitano la corte dai vialetti circostanti. Come bagno ci dobbiamo accontentare, come tutti, di una turca protetta da una capannetta di frasche, e di un'apposita stanza dove si può portare un catino d'acqua scaldata al focolare e appendere i vestiti a una corda.

All'esterno della corte sorgono sparse le case dei figli più grandi dello zio con le loro famiglie e quelle di altre persone che hanno ottenuto di poter vivere qui, senza pagare affitto ma dando una mano alle attività comuni, come un catechista, un sarto esile e di spirito più fine, una signora sola. Il villaggio è autonomo per molti aspetti, compresi gran parte del cibo, l'acqua da poco incanalata in tubi di gomma che scendono dal monticello sovrastante, un mulino a motore alimentato con taniche di gasolio, l'elettricità prodotta da pannelli solari, alcune attività artigianali, una chiesa cattolica e una scuola costruite di recente nella zona più esterna.

All'alba, quando noi dormiamo ancora, quasi tutti si recano nei dintorni dove sono piantati in ordine sparso mais, cacao, caffè e alberi da frutta: raccolgono e portano al villaggio i prodotti che verranno poi venduti grezzi a rappresentanti di aziende più grandi. Da qualche tempo sul monte c'è anche qualche decina di mucche affidate a un pastore. Uno dei primi giorni lo zio ci annuncia che ne verrà macellata e cotta una in mio onore. Con lui e un gruppetto di bambini e giovani uomini risaliamo il sentiero fino a mezza costa, dove si trova la mandria. Un manzo bianco e nero viene isolato dal gruppo e legato per le zampe in modo da non poter scappare. Con un semplice coltello un giovane gli recide a fondo la gola fino a staccare per metà la testa: il manzo emette un lamento, scalcia ancora un po' e presto rimane senza vita steso nell'erba. I ragazzi cominciano con perizia a scuoiarlo e quindi a togliere i diversi organi. Le parti verranno caricate su un carretto a due ruote spinto quassù dall'energia di un ragazzino; anche i bambini piccoli si dimostrano già volonterosi e provetti nel trasportare secchi d'acqua o altri carichi piuttosto pesanti, spesso issandoseli in testa e tenendoveli in equilibrio come è comunissimo vedere in Africa. La carne verrà portata in una stanza dedita alla cottura, salatura e affumicatura, dove lo zio la disporrà su un graticcio di rami e la sorveglierà di tanto in tanto, chiudendo la porta con un lucchetto per evitare furti da parte di qualche goloso abitante: i primi beneficiari saremo invece proprio noi, che la assaggeremo nei giorni successivi e ne porteremo altri pezzi con noi in Italia.

Gran parte della vita degli abitanti si svolge dunque nel villaggio e nelle sue immediate vicinanze. Chi ne ha bisogno si sposta nei dintorni con una moto. Solo ogni qualche sera lo zio si fa portare da uno dei figli nei villaggi vicini dove si può fare qualche acquisto e fermarsi nella veranda del bar. A Songkolong vediamo diversi negozietti di bevande, arachidi, carne piccante e bottiglie del rosso olio di palma prodotto da molte famiglie, nonché un fabbro, un piccolo mulino a gasolio, un campo in cui dei ragazzini giocano a calcio, una nuova ricevitoria che permette di spedire o ricevere denaro... Ci si può anche portare il cibo a uno dei tavolini del bar, che da parte sua serve solo bevande: birra di diverse marche, malta Guinness, un intruglio energetico e alcolico chiamato Booster o una bibita gassata al pompelmo. Rimaniamo a lungo così a chiacchierare o tacere sulle sedie di plastica, mentre ai bordi della strada parcheggiano e ripartono altre Toyota Corolla, e mi annoio un po'.

Un giorno al villaggio arriva anche il genero che porta i figli a partecipare alla festa del giorno successivo. È vestito in giacca e scarpe eleganti e mi informa che mi accompagnerà a incontrare il capo (chef) di Songkolong. Le chefferie sono istituzioni africane molto antiche, precedenti all'arrivo dei coloni tedeschi e francesi: in ogni paese di una certa grandezza ce n'è una, consistente in una grande casa decorata con qualche velleità estetica, che gli usi concedono solo ai capi o ai loro consiglieri: tetti a punta, archi e fregi sopra gli ingressi. La gente vi si deve rivolgere per risolvere controversie civili relative all'uso di terreni o altre questioni locali. L'amministrazione e la giustizia statali ne sono relativamente indipendenti, e vengono chiamate in causa solo per le questioni più gravi. La carica di chef o quella superiore di fon, sorta di saggi autorevoli, sono perlopiù ereditarie, anche se veniamo a sapere che in un altro paese qualcuno ha cercato di uccidere il capo in carica per sostituirsi a lui. Il cortile della residenza lo troviamo deserto, ma poco dopo passa un bambino che avvertirà il capo della nostra presenza. Costui, un signore alto vestito in una tunica e con un corto cappello cilindrico — adottato anche da altri anziani, come lo zio — ci raggiunge e ci fa accomodare nella sala di ricevimento della chefferie, che è separata dall'abitazione. Abbiamo il privilegio di non doverci mettere per terra sul tappeto, bensì su una delle più rispettabili sedie ai lati. Il capo è tranquillo e gentile e dopo qualche minuto mi chiede se ho da rivolgergli domande. Parliamo dell'Italia, del Vaticano (di cui la gente di qui sa pochissimo), della pacifica coesistenza in Camerun di cattolici, protestanti e musulmani — uno chef può essere indifferentemente di qualsiasi religione. Di fianco al bar infatti avevamo udito improvvisamente dei musulmani che iniziavano una preghiera cantilenata; lo zio è di formazione protestante ma non gli dispiace più di tanto che la chiesetta del villaggio sia cattolica, tanto si tratta sempre dello stesso dio, dice.

L'indomani fin dalla mattina si comincia a sentire un battito di mani sui tamburi che in diversi conservano a casa. Al villaggio cominciano ad affluire persone dalle vicinanze, qualcuno munito di nacchere e con la pelle decorata da un pigmento rossiccio ricavato da una corteccia. Anche le magliette indossate sono, quando possibile, rosse, e alcuni sotto di essa portano una tunica con disegni tradizionali. Si tratta di una festa celebrata prima della riapertura delle scuole, che avverrà fra pochi giorni. Le danze al ritmo di voce, tamburi e nacchere cominciano nel pomeriggio in un'aia esterna non troppo vicina alla nostra stanza, un dettaglio fortunato considerando che continueranno fino a notte. Ci sediamo su una panca a un lato dell'aia, ma presto lo zio, vestito in un'elegante tunica, viene a chiamarci con sé su tre sede d'onore, e ci offre addirittura del buon whisky che ha aperto appositamente. Restiamo così per un po' a osservare le due file parallele, una di uomini e una di donne un po' come nelle bourrée, che cantano una stessa strofa ripetuta indefinitamente e danzano secondo un passo binario saltellato (due tempi corti seguiti da uno lungo accentato). Gli uomini non sposati possono scegliere una ballerina di loro gradimento, la quale può o meno accettare di porsi a ballare di fronte a loro, ed è così che nascono molti fidanzamenti. I bambini cantano e danzano anch'essi ma camminando sciolti in un gruppetto anziché allineati nella doppia fila, la quale va lentamente ruotando un po' come il raggio di un cerchio. Alle mie domande lo zio risponde che si tratta di una danza della zona, e che a Bafoussam sarebbe già diversa. Tutti cantano e danzano con energia nonostante la ripetitività della canzone, che ogni tanto termina per riprendere poco dopo uguale o simile, in base all'accordo fra i canterini; il ritmo è scandito da tre suonatori di tamburo, comprendenti un figlio dello zio e due forestieri. Mi dico che restare seduti a fare fotografie e video ci fa apparire troppo come occidentali che si sentano superiori, ed entriamo un momento nella fila danzante, cercando di imitare il passo degli altri. Questa iniziativa scatena l'entusiasmo dei vicini, che si complimentano con noi: lo zio viene ad appoggiarmi sulla fronte una banconota, un simbolo di ammirazione che è uso regalare poi ai bambini. Ci fermeremo poco dopo già stanchi, mentre molti ballerini continueranno per ore.

Per variare la pigra vita della corte facciamo qualche passeggiata nei dintorni. Sul monte dei pastori non possiamo salire perché spesso è coperto dalle nuvole; allora andiamo dal lato opposto verso il ponticello sul torrente dove si fa il bucato e i bambini fanno il bagno, e oltre nella zona del vicino villaggio di Magnam. La gente di lì è gentile nel darci informazioni, ma non riesce a indicarci la strada per lo stagno dove lo zio alleva carpe e siluri. Dobbiamo chiedere ripetutamente a lui di accompagnarmici, cosa che fa solo l'ultimo giorno utile. Io cammino male a causa del mal di schiena, ma lui mi taglia subito un bastone e con sicurezza mi guida fra i sentierini. In un quarto d'ora arriviamo a un punto dove il bosco si apre lasciando vedere una piccola e graziosa conca valliva, nella quale scendiamo. Qui lui ha realizzato una diga di cemento che ha permesso la formazione di un laghetto. Oltre ad alcuni bambini è venuto con noi un ragazzo in moto che ha portato un sacco di mangime, consistente in nidi di termiti vive: lo zio li frantuma un po' prima di lanciarli nell'acqua, dove subito si vedono ondine concentriche provocate dai pesci che affiorano a mangiare. Per rientrare al villaggio mi fanno salire sulla moto dietro al ragazzo: mi chiedo come posso tenermi, ma il tragitto si rivela morbido e privo di problemi.

Siamo nella stagione delle piogge, il che significa che la temperatura è mite (attorno ai 20 gradi) e che quasi ogni sera c'è uno scroscio di pioggia. La notte scorsa invece è piovuto molto intensamente e a lungo, e mi aspettavo di trovare il villaggio e le strade ridotti a un pantano, ma così non è: la terra compatta e i fossetti predisposti sul bordo dei cortili drenano bene. È un bene, dal momento che è tempo di ripercorrere all'inverso il lungo e complesso tragitto fino a Douala, con gli stessi autisti che abbiamo nuovamente ingaggiato. Mettiamo la sveglia alle 3:30 del mattino perché l'autista locale dovrebbe arrivare alle 4. Tuttavia non lo si vede fino alle 5:25, e quando arriva si scopre che è passato a prendere altri due passeggeri, che si siedono entrambi sul sedile anteriore di destra, lasciando a noi tre il divano posteriore. Comunque, l'importante è che la macchina ci sia! Si parte a velocità ben sostenuta mentre sorge l'alba, ma pochi minuti dopo, essendo le 6, il guidatore già si ferma informandoci che deve dedicare un paio di minuti alla preghiera. Rientra in macchina insieme a una signora che per un tratto diventa la nostra settima passeggera, e con disinvoltura si accomoda sul sedile anteriore di sinistra insieme al guidatore! Li osservo con preoccupazione, eppure la velocità e la precisione della guida non diminuiscono affatto.

Il viaggio prosegue senza intoppi fino a un paese oltre Bankim, dove c'è più fango e alcuni camion impantanati hanno bloccato la strada. Le auto possono allora passare per i cortili degli abitanti, alcuni dei quali ne approfittano per chiudere il passaggio con un bastone e farsi pagare un pedaggio; superatine due o tre, troviamo che il fondo diventa molto fangoso anche qui e si rischia di impantanarsi; ma l'autista, con l'aiuto di qualche spinta, riesce abilmente a riportare la valente Corolla sulla strada principale. A Foumban ritroviamo Félicien e saliamo a bordo della sua assai più comoda e spaziosa Land Cruiser. Ci fermeremo qua e là per acquistare del cibo o dei frutti da portare a casa, seguendo dopo Bafoussam un itinerario diverso dall'andata, per la falesia di Dschang (un altro passo montano) e la cittadina di Nkongsamba.

Avvicinandoci a Douala, chiediamo di fermarci e domandiamo agli abitanti lungo la strada come localizzare il bivio per il paese di Abo. Molti abitanti però sono immigrati di recente e non lo conoscono. Infine identifichiamo l'incrocio giusto, in corrispondenza di un bar, ma non abbiamo il tempo di addentrarci nella strada secondaria. Ci fermeremo invece a Douala nei quartieri dove si trovano le case in cui è cresciuta: quella dove abitavano con suo padre, non lontano dal centrale quartiere centrale di Deido, e quella dove si sono trasferiti quando lei aveva 5 anni, nella stessa direzione ma nel quartiere più periferico di Bonamoussadi. Con sicurezza dà indicazioni all'autista e riusciamo facilmente a ritrovare la via. È una casa abbastanza moderna a un solo piano con un cortiletto sul davanti chiuso da un cancelletto. Lei suona a una coppia di vicini gentili che la riabbracciano dopo 17 anni, parlano un po' e ci aprono il cancelletto. Le stanze sono vuote, a eccezione di una in cui è accampato un ragazzo che lavora come guardia notturna nei dintorni. Nel soggiorno ci sono ancora due fotografie di famiglia e alcuni oggetti della mamma. Anche la casa verso Deido è cambiata perché sulla strada principale si sono ammassate nuove costruzioni di negozietti, ma infine ritroviamo il cortile con le grosse radici di un mango; della famiglia che ci abita, l'anziana madre ricorda i tempi dei genitori e con disponibilità ci fa entrare in casa e scambia qualche parola.

Infine rientriamo in albergo. L'indomani la tivù della hall trasmette la partita di ritorno in cui la Nigeria elimina il Camerun dalle qualificazioni ai prossimi mondiali di calcio. L'ultimo spostamento è a un mercato di artigianato tradizionale per scegliere un regalo per la maestra Anna: per esprimere la ricchezza della multiculturalità le prendiamo una maschera in legno da appendere. Stavolta il viaggio più lungo in aereo avviene di notte, e fra cena e sonnecchiare passa più in fretta. L'indomani pomeriggio siamo di rientro a casa senza problemi.

 

Una mucca per l'ospite bianco / Claudio Gnoli — <https://www.gnoli.eu/mucca.htm> : 2020.12 - 2020.12 -
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